Manoscritti da buttare: l’autoreferenzialità
Dati alla mano, oggi si legge poco e si scrive tanto. Le case editrici sono sommerse di manoscritti, l’autopubblicazione spopola (in questo contesto è azzeccatissima la definizione di vanity press).
Aspiranti scrittori, fatevi un esame di coscienza
Lo scivolone più comune che si commette è cadere nell’autoreferenzialità, ovvero avere la presunzione di scrivere un libro su un diario, uno sfogo intimistico, le emozioni del primo amore, i ricordi d’infanzia, e simili introspezioni personali. Di Fernando Pessoa ce n’è stato uno solo.
Ricevo moltissimi manoscritti di questo genere da sottoporre ad editing, ma vi sconsiglio di coltivare speranze di essere pubblicati.
Stefania Miretti, raccontando la genesi di Romanzi per il macero di Silvia Pertempi, in un articolo scrive che:
«Nel gennaio del 1992, inconsapevole del rischio che correvo, e certo agita da un inconscio autodistruttivo, inviai un romanzo a un autorevole consulente di Einaudi…
Negli anni successivi fui tanto presa dallo scrivere da non fare eccessivo caso ai silenzi e alle risposte negative che giungevano dagli editori. Scrivevo, stampavo, rilegavo, inviavo i manoscritti con accattivanti lettere di accompagnamento…». Quando ha cominciato a farci caso, ha sentito l’impulso di vederci chiaro, almeno sulle regole di quello che ormai aveva tutta l’aria di essere un gioco al massacro, e ha affrontato Donzelli: quali sono i dannatissimi criteri di valutazione? come fate a scartarci? perché non ci leggete? come fate a sapere che là dentro non c’è nulla di buono?
L’editore dapprima ha provato a schermirsi, poi ha ceduto, aprendo alla Pertempi la «stanza maledetta», quella in cui i «famigerati manoscritti» – oltre un centinaio di romanzi, nonostante sia risaputo che Donzelli da qualche anno non pubblica romanzi ma saggi e poesia – giacevano accatastati. Che leggesse. Che si rendesse conto. Pertempi, che dev’essere una donna ostinata, l’ha fatto, ha letto i romanzi, in qualche caso si è resa conto, e tuttavia li ha schedati, suddivisi per genere, ha individuato le tipologie degli autori, infine ci ha scritto un libro divertente, a tratti impietoso: «Romanzi per il macero», appunto; che Donzelli ha ora pubblicato.
Come sono, dunque, e di cosa parlano, i manoscritti di narrativa ricevuti da un editore per nulla intenzionato a pubblicarli? La caratteristica che più salta agli occhi, leggendo gli stralci riportati da Pertempi, è il carattere prevalentemente autoreferenziale (non di rado autobiografico) della maggior parte dei romanzi, soprattutto quelli scritti dalle donne («gli uomini, in particolare i giovani, si interessano anche ad altro, al calcio, ai rapporti sociali… nelle donne l’autoreferenzialità è altissima», conferma l’autrice). La seconda, è la sostanziale ignoranza, o indifferenza, da parte di chi aspira ad essere pubblicato, delle regole di marketing e delle tendenze del mercato: un mercato che, tra l’altro, difficilmente prende in considerazione lavori che nascano con forti presupposti di autoreferenzialità (il diario, il romanzo nato «per esorcizzare il proprio vissuto doloroso» eccetera).
«Nell’immaginario degli autori, i romanzi e i racconti sembrano configurarsi», constata Pertempi, «come atti del tutto individuali che si concludono con l’apporre la parola fine».
A scrivere sono soprattutto uomini (il 72,8% del totale, sul campione di 114 romanzi esaminati), con buona cultura di base (lauree in campo umanistico o studi superiori), un lavoro come insegnanti, impiegati, giornalisti o traduttori. Il 45% dei romanzi provengono dal Nord Italia, in maggioranza si tratta di romanzi sentimentali o di formazione. Dove l’autore, non di rado sostenuto da un ego potente, va alla ricerca della sua occasione di riscatto e visibilità («se volete scoprirmi, fate un giro su Internet», scrive d’altronde all’editore un aspirante romanziere). Nel mucchio c’è di tutto, assicura l’autrice della ricerca, «ci sono cose buone e altre assolutamente indecenti, ci sono persone che davvero non hanno alcuna coscienza di ciò che scrivono e tantomeno di ciò che viene editato, che non leggono; altre che scrivono romanzi e racconti che potrebbero benissimo venire pubblicati: il che non è poi così importante, dal momento che né le cose buone né quelle indecenti verranno visionate dall’editore».
Sconsolante? «No, drammatico», precisa l’autrice, «è una vera e propria tragedia, perché poi ciascuno, nello scrivere il suo romanzo, ci mette passione, sofferenza, impegno. Ma non esiste soluzione, si tratta di un conflitto non sanabile. I piccoli e medi editori italiani, oggi, sono molto colti, ambiziosi, severi, ci tengono a mettere in catalogo lavori di qualità alta, prediligono autori stranieri già noti, sensibilità diverse… Tra loro e le migliaia di italiani che inviano manoscritti non c’è nessuna possibilità di incontro. Bisognerebbe dirlo, bisognerebbe parlarne. In fondo, la mia ricerca l’ho fatta proprio per questo». Non per suggerire una strada, ma perché si sappia che la strada non c’è. Perché chi scrive lo sappia.
Eppure, il libro di Silvia Pertempi non è destinato soltanto agli addetti ai lavori: dentro i romanzi per il macero, a ben leggere, ci sono gli umori, le sensibilità, la cultura di un bel pezzo d’Italia.
La ricerca ci dice, per esempio, che la società rappresentata in queste opere non è felice, che l’azione della scrittura è associata quasi sempre al travaglio, alla fatica: «E’ come se quasi nessuno degli scrittori esaminati reputasse la felicità degna di rappresentazione, neppure sotto forma di ricerca fallimentare», constata l’autrice, «sembra che gli unici sentimenti degni di scrittura siano quelli che ruotano intorno al dolore, all’insoddisfazione, alla delusione, alla rassegnazione, al rimpianto, a volte all’aggressività o all’adattamento doloroso alla vita».