L’editoria può prescindere dall’editing? La parola a Grazia Cherchi
L’editoria può prescindere dall’editing? Come gestire il delicato rapporto fra editor e autore?
Mi sono imbattuta in un’intervista alla brillante Grazia Cherchi in occasione del Salone del libro 1988, col risultato di innamorarmi ancora di più del mio lavoro. Lascio la parola a Grazia, sono sicura che vi innamorerete dell’editing anche voi.
“[...] Torniamo in Italia dove, dicevo, usava pochissimo e oggi ancora meno, data l’attuale tendenza dell’editoria (naturalmente ci sono delle eccezioni: pochissime) a liberarsi immantinente dei testi spedendoli così come sono in tipografia, con i bei risultati che tutti abbiamo sotto gli occhi. In questo bisogna però dire che c’è una corresponsabilità secondo me tra i vertici delle nostre case editrici che non vogliono gravare di spese ulteriori la merce-‐ libro già ben poco redditizia, e alcuni autori il cui efferato narcisismo non tollera interventi di alcun genere sui loro splendidissimi manufatti. Ma bisogna anche dire, a parziale scusante, che molti nostri scrittori sanno solo fino a un certo punto in che cosa consista propriamente l’editing: tendono a vedere in chi lo fa una specie di longa manus dell’editore, un manipolatore che ha solo obiettivi bassamente commerciali. Lo dico per esperienza: una volta avevo fatto -‐ come uso sempre io, a matita -‐ una specie di editing non richiesto, quindi per deformazione professionale, sulle bozze del romanzo che mi aveva mandato in anteprima un amico scrittore. Il quale poi guardò questi miei interventi, ne rimase molto sorpreso e se la vanità o la memoria non mi accecano, li utilizzò quasi tutti. Aveva quindi ragione Pasinetti, che intervenne nel breve dibattito sull’editing l’anno scorso, a scrivere sul “Corriere” che in versione italiana “l’editing non occupa un suo posto definito tra le arti e i mestieri che hanno a che fare con la pubblicazione dei libri”. Anzitutto vorrei precisare che fare l’editing (dove mi dicevano fosse eccezionale negli anni ’50 quel finissimo letterato che fu Niccolò Gallo) richiede, secondo me, l’appartenenza ad una categoria che mi pare in via di estinzione, che è quella dei masochisti. Infatti mentre lo si fa bisogna in buona parte dimenticare il proprio stile, il proprio pensiero, anche la propria formazione culturale e fare un’immersione totale in quelli altrui, cioè sposarli per migliorarli, come generalmente non avviene nei matrimoni. Anche per questo l’editing è molto faticoso, direi psichicamente faticoso, è un po’ scrivere per interposta persona. Altro inciso: è un lavoro che non è quasi mai ufficialmente riconosciuto dall’autore, che in genere si guarda bene dal ringraziare a stampa chi lo fa. Anche qui, a differenza degli americani che ringraziano sempre nel libro il loro editor. Non si vuole cioè pubblicamente ammettere di aver ricevuto un aiuto qualsivoglia; ne va del proprio ego. Ci si riserva di farlo, a penna, nella dedica, dove si è generosissimi di lodi, ma a penna e in un’unica copia del libro. Certo che ogni editing è diverso dall’altro, la casistica è sterminata, secondo me, cioè tanti gli autori, altrettanti di editing. C’è ad esempio l’autore che tende a tirare un po’ via e allora si tratterà di interventi che, ripeto, sono sempre e solo dei suggerimenti, su sciatterie, ripetizioni, collegamenti un po’ scollati, ecc. ecc. C’è l’autore che straripa, e questo è forse il caso più diffuso, cioè è prolisso fino a fare ululare dalla noia (lui dice che è barocco): insiste sulle situazioni, abbonda in esempi, similitudini, sinonimi; gonfia la sua rana a dismisura. E allora bisogna consigliare dove potare, sfrondare, dimagrire: gli otto bagni ridurli a quattro, i dieci aggettivi dimezzarli; gettare un terzo dei soprammobili nella pattumiera, i sei uccelletti, che non si sa mai quale verbo usare per farli cantare, ridurli a uno, ecc. ecc. C’è l’autore pignolissimo che illustra minuziosamente ogni movimento del suo eroe, tipo: accese la sigaretta, ripose l’accendino, accostò il posacenere, tirò una boccata, contemplò il circoletto di fumo… E intanto la vita passa e lui è sempre lì con la sua sigaretta. Tutti movimenti di nessuna utilità nello sviluppo dell’azione. Romano Bilenchi cita spesso ai giovani scrittori la frase: “Scese le scale lentamente”. “Quel lentamente -‐ dice Bilenchi -‐ presuppone uno sviluppo nell’azione”. Se invece non succede nulla l’avverbio va tolto. E conclude drasticamente i suoi consigli con un: “Scrivere tutto e togliere tutto”. Ma c’è ben di peggio di un “lentamente” di troppo. A volte ci sono personaggi che fanno capolino nei primi capitoli, poi scompaiono perché l’autore si è dimenticato completamente di loro. Allora qui bisogna stare attenti perché l’autore, una volta avvisato, per accidia non li ammazzi immediatamente. Altro problema sono i dialoghi, un problema di moltissimi nostri scrittori, forse da sempre. E oggi più che mai, dato che nessuno ascolta più nessuno e così i due dialoganti sono spesso due monologanti. C’è l’autore che è debolino nei finali (alludo qui ai racconti) e allora bisogna proporgli altre soluzioni in modo da far rizzare di nuovo il lenzuolo che si è improvvisamente afflosciato. C’è quell’altro autore che è fiacco nelle similitudini e allora, chissà perché, si fa un punto d’onore a costellarne il testo. C’è quello tele-‐dipendente, anche se lo nega, ma chi mai lo ammette, e ogni tanto ti infila una scena da telefilm americano in un contesto di tutt’altro genere. C’è quello che, costretto ad usare, oh quanto di malavoglia, la terza persona, continua però ad intervenire -‐ imperversare -‐ con i suoi commenti, mettendoli in bocca a chiunque capita, anche ad un bambino di quattro anni improvvisamente sentenzioso. O ancora c’è quello che è troppo autobiografico, razza pericolosissima, e allora crede che ogni suo stato d’animo, anche il più lillipuziano, essendo capitato a lui, sia memorabile C’è quello che comincia molto bene e a pagina 60 sempre si rattrappisce di colpo e poi prende quota nel finale, eccetera, eccetera. [...]”
Grazia Cherchi
Fu tra i fondatori e in seguito condirettrice dei “Quaderni Piacentini”, di cui più tardi curò un’antologia. Come giornalista ha lavorato per “Linus”, “Il manifesto”, “Panorama”, “l’Unità”. Come curatore editoriale ha lavorato per diverse case editrici, tra cui Rizzoli, Arnoldo Mondadori Editore, Feltrinelli, e fu autrice fantasma di alcuni dei più bei libri della nostra narrativa. Scrittori, anche assai famosi, le presentavano i propri manoscritti e lei, in notti e notti di insonnia, correggeva, aggiustava, riscriveva. Oltre a Stefano Benni, figurano tra i “suoi” autori, tra gli altri, Alessandro Baricco, Maurizio Maggiani, Massimo Carlotto, Gianni Riotta, Giulio Angioni, Enrico Deaglio, Gad Lerner. (Fonte: Wikipedia).